Blu/fredda

Ho perduto il verso d’amore
[non lo trovo più, è come un sasso
aguzzo risplendente
sotto la schiena che rotola]

sono fuori_fuoco
adesso
rossa dove dovrei essere bianca
bianca dove dovrei apparire
rossa.
Eppure, se ci penso bene
mi sento blu/fredda
anche se sei tu a parlarmi

blufredda sirena – che ha già perlustrato
i suoi abissi
e conosce a fondo le strade del mare.

Ma ancora ha paura
la piccola guizzante

e brividi d’alba
nel silenzio che schiamazza
e reclama

nonostante.

Iole 16 dicembre 2012

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Se fossi altra

Se fossi altra, ora, io ti canterei.

E sentirei il tonfo nero delle parole mie che scorrono

e arrivano alla morsa, quella che stringe ogni oltre viaggiare

che inchioda, afferra.

 

Ma sono neve adesso, quella più sporca

che accende i viali sotto le nuvole di gomma dei portoni

 

sono quel cucchiaino in bilico sul bordo

un po’ di zucchero ai contorni e basta

 

sono l’agenda scura che si impaurisce e taglia gli angoli di carta

la bimba che brucia i suoi rametti senza incenso

l’ombra più piccola, una caduta di ginocchia sulla terra.

 

Però se fossi altra, ancora lei,

la donna di un allora che s’incendiava

di ricordi

in verbi antichi a profusione per il mio pubblico nascosto

 

la festa sopra un pane appena bianco

 

allora io ti canterei

e svestirei le secche all’onda per renderle catene d’erba

e ti sorriderei, direi tutte le mie parolezitte custodite nella lana.

 

Sì, io ti canterei sotto i pianeti

e sarei tanto bella soltanto nel guardarti

 

bella e sognante come luna alta o fiore che s’inarca

bella e d’argento, accanto alle tue mani

com’era un tempo l’acqua del silenzio

che tu, in profilo, mi specchiavi

 

a mare.

 

Iole, 2011

 

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Necessità

 

 

Non per peccato né per vanità

mi sono fatta cosa sotterranea

creatura traslucida, vaga nel respiro

perennemente distratta

 

roba di poco conto, insomma.

 

E nemmeno per presunzione

ho guardato il fondo

come se fosse prato

senza dignità d’erba

inoperoso affare di zolle e sassi

privo di una coerenza d’acqua, così magro.

 

Neppure mi ha sfiorato il pensiero

che quei detriti fossero la me che scrive

che legge, che cerca il verso di giorni

capovolti.

Sarei stata cordiale nemica di me stessa

se l’avessi fatto.

 

Ho ceduto soltanto alla tentazione disumana

di sopravvivere

essere l’apnea del pesce nella boccia

il ramo secco che ha svernato il suo fiore

e adesso aspetta.

 

Mi rendo conto, però, di possedere ancora

occhi, e labbra, e gambe

un desiderio inesausto di partecipare

anche alla mia prossima sconfitta

 

o al premio di una nuvola, magari,

perfetta azzurra

svagata, mentre si posa sulla fronte.

 

Così ritorno nel giardino

a fare verdi i sentieri

con le mani.

 

Iole 26 settembre 2012

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Come fosse solo vento

Io sono antica, solitaria, bellissima.

 

Sono una bellissima cosa invecchiata

che non ti assomiglia

che a notte fa paura e poi commuove.

 

Sono una perla bellissima caduta

sull’incrostazione della spiaggia

 

io parlo

a tutte le creature desiderose

a tutte le creature devastate

 

ho voce di crepuscolo.

 

Io canto

quando il resto del mondo si confonde

tra i gesti inoperosi

del fare sonno

 

mi mescolo agli aghi di pino

mi restituisco a un viottolo di terra

contorta

che cerca il mare con dita povere

 

io mi assottiglio

e resto verde resinosa

resto sognante

pietra azzurra infinita

 

in un gesto, io, mi riconosco

mentre nego questa pagina vuota

mi inchino, la recito a memoria

e poi mi piango.

 

Tutto il dolore addosso

ma non resisto al cielo

da una finestra aperta di settembre

all’intreccio di un corallo tra le dita

 

al sole blu

quando è mattino

e si perdono nuvole

per niente

come fosse solo vento.

 

 

Iole 16 settembre 2012

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Dicono che è normale


 

Dicono che è normale

questo essere come sono

questo saltare in piedi al mattino

come per un terremoto

una visione che scivola veleno

dai margini

e la gatta che mi osserva.

 

Dicono che è normale

senza trapiantare più semi

guardare il vecchio oste in bottiglia

che pulisce un banco fumoso

di secoli fa

sentire musica attraverso i vetri

e pensare alla tua morte

come all’evento del millennio

il bug universale

l’inganno degli onesti che ci credevano ancora.

 

Apparecchiare ogni giornata è fatica santa

impedirsi la pubblicità quasi un dovere

per rinnovare il dolore negli avanzi

tra pagine di libri scoperchiati

che resistono

nell’augurio detto senza crederci

nell’inverno delle parole dispettose

che mi fanno girotondo

e non mi lasciano andare.

 

Dicono che è normale, evidente, naturale

averle come sorelline che parlano la stanza

adesso che tu non ci sei più.

 

Dicono che siamo tutti malati

in overdose di qualcosa e in assoluta mancanza.

Mi mancano le braccia, infatti, e non nuoto

mi mancano gli occhi

e non guardo più da lontano

vivo nel mio esilio ignoto al mondo

che fluisce per strada

sto sulla terrazza e mi rinchiudo

nell’affaccio verde azzurro di quella casa

sul mare.

 

Dicono che è normale

che ogni marmellata ha perduto il suo profumo di gelso

che la campagna è rovinata

che il mal di mare è peggio del mal d’amore

che tutti siamo soli sulla terra.

Dicono.

Che tutto brucia e poi si spegne

che tutto sale e poi discende

che l’acqua è un germe per ogni cosa e per noi

che non sappiamo eppure parliamo

che non voliamo eppure abbiamo ali nascoste

sotto la giacca

e sverniamo come orsi dentro sale da ballo

senza prendere nemmeno un tè con l’amico.

 

Io ci ho provato a uscire dal mio garage in affitto

a piedi rovistare strade morte nel sonno

con i miei occhiali svitati

ma mi dicono che è normale non sapere più dove andare

quando la luna è una falce imperiosa che ti sega il cammino

in dita di sangue notturno appeso ai rami

dell’albero altissimo, che piange.

 

Dicono che in fondo a un mare antico esista il rimedio

ed è il Silenzio del Tempo.

Le mani si fanno polpa

i capelli una pioggia di alghe

e le gambe squama lunga, perpetua.

E, forse, laggiù cantano ancora note non sverginate

balene sontuose.

 

Dicono che è normale

questa fretta al rovescio

l’idioma trascinato

notti copiose a valanga sul mio letto-nave

che imbarca tutta l’acqua degli oceani.

Il mio paese è soltanto un barlume

sull’estensione delle terre

e l’estensione un microsolco

tra dischi volanti

e tutto il cielo non sarà che un ammasso di nuvole

spostato da venti misteriosi.

 

Dicono che è normale, quindi,

sentirsi memoria leggera assorbita da una spugna gigante

un’odiosa verità senza tribunali

una paura lieve che non sa planare sopra le favole

un colore schizzato via da un pennello imperturbabile

un cerchio ottuso che non chiude la cerniera

una pozione bruciata sul Bunsen

l’amarezza di un dolce offeso

il gesto di un bambino che tintinna e riluce

più di qualunque altra luminaria

l’ansia di spalle della Guerra maiuscola d’abominio

i numeri intontiti sui giornali – carta straccia da nutrire

il camino –

neve che ulula alle porte.

 

Perciò, dato che è normale, io ci verrei

a chiamarti, a sera, sotto quel cespuglio di rose

che protegge il tuo balcone

 

io ci verrei, comunque.

 

Ma alla mia età non vorrai certo prendere sul serio

ciò che, leggero, io chiamo, amore.

 

 

Iole 15 febbraio 2012 

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Del mare in me


Quel poco che sento

mescola il rumore

del mare in me

 

e arrivano profumi insospettabili

dietro l’angolo del grande negozio

in bilico su neve sporca

di colline basse

in mezzo a pesci parcheggiati come auto

estenuate.

 

Arrivano di gran fretta i profumi

perché c’è vento da est

e le nuvole strappano i capelli

ai refoli furiosi.

 

Sulle cime navigammo

ed era tempo da lupi

 

– questo lo ricordo bene –

tempo di grandi carogne travestite

da maghi

e il fuggi fuggi generico

ci ha resi molli

in armature silenziose

bagnate a ogni guado

a ogni santa rampogna in riva

 

occhi senza palpebre

da stramazzare, aperti, sulla terra.

 

Oggi Venere verde mi ha rimproverato

al dito manca sempre un anello

al cuore un vestibolo

all’accettazione la noncuranza di sé.

 

Io mi preoccupo ancora, non ho slacciato

la veste alla finestra

mi vergogno sommariamente di me

delle mie ossa di carne invenduta.

 

Su quella neve sporca ho camminato, stamani

e un’alba sarebbe stata d’obbligo

ma era soltanto mezzogiorno.

 

Povere cose raccolte a caso

come un’urgenza di correre

precipitata al suolo, già ghiacciata.

 

Iole 9 febbraio 2012

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Io sono la madre

 

 

 Io sono la madre vecchia

la pensierosa, assorta.

Sono la spira derubricata al dito

(isolamento e stupore

dentro l’ufficio vuoto)

la seduta senza paglia

il ricciolo di lana.

 

Sono la madre antica, inoperosa

guardarobiera vestita in gesso

da grattare alla lavagna

(intanto fuori piove

e il professore ha già parlato troppo

la campanella è muta

e sono io che trillo al grigio

di nuvole di carta).

 

Sono scontrosa, la valvola impietrita

eppure mi apro in mille foglie gialle

stendo la biancheria

rispondo a quel miracolo di voce

che si impiglia.

 

Sono la madre prosperosa

le guance rosse rubate a Rubens

in una sola notte.

 

Sono il ragguaglio

l’urgenza perniciosa

delicatezza di un soufflè

che non si tiene ai bordi, esplode!

 

Sono le sere recuperate al caldo del tuo sonno

sono il tuo sogno che oscura il lume della vasca

e scivola in un’acqua lenta che non beve.

 

Sono la tua scrittura automatica

la perdita colmata

o quel tombino

che straripa le sue foglie morte.

 

Sono qui e là

mi faccio piccola e perplessa

ma non ti immagino se non lo vuoi

non reco guasti nelle fondamenta.

Se credi, ti sillabo

le conseguenze dell’amore

memoria a collo storto

dentro un crepuscolo di maggio

 

oppure, ti preparo quel che so

la cena è un occhio che non si impietosisce

sulle tue mani grandi.

 

Io so

contare, recitare

rispolverare l’abito da ballo

[il rosa sul pervinca ci sta bene]

io so

sono la madre bianca d’acqua

che scende pietre

tiene il timone

e poi, frulla lontano all’onda

con la nave-cargo.

 

Allora, tu non la vedi più

sotto le stelle

 

e vivi, almeno sembra.

 

Iole 30 gennaio 2012

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Non può fare male

 

Mi rannicchio.

Qua sotto.

 

Non può fare male, più male ancora di questo corpo freddo.

 

La zattera è passata, ferma di pioggia al bus-stop

si è avvelenata il legno gracchiando sull’usura del suo sale.

Corvo in tralice.

 

Non può fare male, ancora un poco, in più.

Queste lenzuola del mattino si svendono, alla sera

per ogni bel colore trapassato in blu

fondo di mare su carcasse nere

già svuotate ai pesci, i silenziosi regnanti,

abissi galleggianti di relitti

siderali

sopra il mio cuore zucchero invecchiato.

 

Mi trovo qui, per caso o per ragione,

ma non è vero che non ho paura

che limo la tempesta con le dita

 

non sono un falegname né un dentista

la bocca ripiegata in giù non fa rumore

sente il suo male mentre mi recita rosari sconosciuti

la compravendita su carta di un dolore

che non mi è stato restituito, ancora.

 

Qui giace il mare, accanto al comodino zuppo

di versi e di notizie – rotative luccicanti.

Qui canto il mantra quotidiano

l’argento che si stacca dalla pelle e voga lento

diretto all’allegria di rame di un’oasi ignota

anche al pirata più recalcitrante.

 

Ma quanto verde.

 

Mi appoggio, e lo ripeto

non è che io non ho paura

 

se il quadro è appeso storto

beccheggia il bordo della nave

 

però so mantenermi dritta, per qualche ora di sudore

so mantenermi in piedi anche spogliata, tutta

di quel che non ho saputo dare

tranne i miei gemiti furiosi

dentro la cella bianca della pelle.

 

Non chiedo, l’amore è di lontane trasparenze

si è liquefatto alla candela

si è stropicciato poveretto

(io l’ho ridotto ai miei silenzi comodi

di corridoi in sovrimpressione).

 

Serpeggiano parole, intanto che ti scrivo

e non mi danno pace

 

[è adesso!]

 

ma poi l’androne è vuoto

 

rimesta foglie come un custode

innamorato della scuola

il suo grembiule azzurro

è uguale a quello di un bambino.

 

Io imparo a sillabare la mia terra

piccola indiana seduta sul mio zelo

 

da zero una radice, forse, spunta ancora

 

mentre la luna

tristezza Candida d’avorio

dondola i suoi segreti tra i deserti

 

poi si fa ramo d’alba

e sfiora

prima di andare la sua danza, altrove.

 

Iole 28 gennaio 2012

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Prendo nota

 

Non ho sempre qualcosa da dire

o anche solamente da pensare

ecco, adesso è uno di quei momenti

e le ossa fanno male

per il vuoto che risuona

come un belato senza animale

o una stecca

proprio in petto all’assolo.

 

Mi trovo a non avere niente

su cui scommettere un’idea

o un’accelerazione

resto ferma al palo, allora,

come un cavallo scosso che sbuffa per un fiore

e non lo sa.

 

Di ogni notte

prendo nota

dei movimenti nel letto

dell’assurdità della mia luce accesa

piccola e insonora

del male fatto

involontariamente

di quella stella nevicata alla sinistra

del mio fianco già semi-assopito.

 

Ricordo il tempo di un sorriso brivido

di quella cioccolata sparsa sulla spiaggia

di un tetto che cantava tutta la sua acqua

i miei capelli avvolti da un impermeabile

o era un bacio che mi strisciava addosso

con gli occhi luccicanti?

 

Così, per consolarmi un po’.

 

Poi, mi addormento.

 

Iole 27 gennaio 2012

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Carteggio [variazioni]

Carteggio [variazioni]

 

 

(ora tutta la vita è nel mio sguardo,

stella su di te, sul mondo che il tuo passo richiude).

Cristina Campo

 

                                             One

 

Carissimo P.,

e se anche fosse che non mi ami – così come mi aspetto che sia – cosa cambierebbe? Smetterei forse di osservarti, di preoccuparmi per te o di tentare di proteggerti, anche da così lontano, dai miliardi di malanni pesanti che schiumano ogni giorno benedetto dall’intero universo?

 

L’amore non è un’intermittenza, o una stella che finisce di brillare per capriccio umano. Sarebbe esso stesso un capriccio, allora, o un desiderio dispettoso e fugace di bimbo.

Se anche tu non mi amassi – come credo fortemente che sia – non potrei impedirmi di scrutare il cielo al mattino nella speranza che non sia troppo freddo per la tua pelle bianca o che non piova e tu abbia disagio nell’uscire, magari a piedi per recarti anche soltanto al più vicino caffè, o di temere che qualcuno voglia umiliarti o farti del male di proposito, o, banalmente, a causa di un impulso vuoto e superficiale.

 

E’ inutile che io continui a negarlo anche a me stessa, anzi, soprattutto a me stessa: a ogni alba il mio pensiero primario, nell’attimo esatto in cui apro gli occhi, è per te, per la tua bellissima persona. Desidero che tu stia bene, che tu possa raggiungere quel traguardo di serenità che è luogo dove ogni cosa, anche la più piccola o insignificante, ha un buon profumo, dove i colori sono trasformati come per incanto in brillantezza e luminosità, senza macchie di ombra.

 

A me importa che tu non mi ami, nel senso che mi fa soffrire questo tuo non amore per me, ma non posso pretendere il contrario se così non è; l’attesa di un tuo improbabile, ahimè, amore, mi renderebbe schiava del tempo del disamore, dell’indifferenza. E sarei triste, molto triste, ancora più triste di quanto già io non sia adesso.

 

Invece vorrei farti dei regali: dei fiori, un orologio, un piccolo lago azzurrino tra le montagne, un’oasi nella quale possano averla vinta la pace e una quiete sospesa. Là vorrei venire a trovarti, se tu mi accogliessi, proprio dentro quella quiete di alta montagna, dove anche l’acqua del lago potrebbe respirare insieme a noi essenze odorose.

 

Vorrei anche riuscire a dipingere sul tuo volto bello quel sorriso che meriti e che non so se sei in grado di ospitare tra le pieghe delle labbra e dentro gli occhi. Questo vorrei.

 

Io so che non mi ami ma non posso impedire al mio amore per te di correrti incontro, come fosse la corsa senza regole di un cavallo libero nella campagna, che sceglie dove voler andare.

E’ la mia libertà che mi porta da te.

Non lo dimenticare, non mi dimenticare.

Da qualche parte, dentro di te, io ci sono.

E ti amo.

E devo scriverlo, ora, perché ora io sono questo: io sono il mio Amore per te.

 

V.

 

                                            Two

 

Caro P.,

mi sono rimaste soltanto tre sigarette; finite queste, fumate e stra-fumate, dovrò andare a dormire, o a tentare, perlomeno.

 

Lo so che non mi ami, che appaio ottusa a rimanere qui, agitata e confusa, a sperare in un tuo cenno, un tuo richiamo.

 

La notte è lunga e speziata e vorrei dividerla con te, magari soltanto a parlare, o ascoltare musica come pioggia che scende dalle colline.

 

Mi piacerebbe regalarti qualcosa, forse un libro dalla rilegatura preziosa, un accendino ricaricabile, o un lago, che ne so, un lago grande compreso tra montagne e silenzio. Azzurro e quieto, senza increspature.

Vorrei vivere lì, con te, nella perfezione di una pace finalmente raggiunta.

 

Non ho voce in questo capitolo della tua vita, sono un’ombra dietro l’angolo, una polvere non raccolta.

Però vorrei solo bene per te, a mazzi come rose appena colte invadenti con il loro profumo.

 

Ho timore che qualcuno possa ferirti, farti soffrire, me ne sto chiusa in questa stanza quando invece vorrei correre da te, nella speranza che tu mi accolga, con un sorriso diverso sul tuo viso così bello e gentile.

Vorrei abbracciarti per un tempo che non so, tenerti stretto senza che il fiato, uscendo dalle nostre bocche, possa gelare i nostri contorni, anche soltanto per un attimo.

 

La notte è lunga, odora di mandorle e mugo, è fredda fredda, mancante.

Le sigarette sono finite, scrivendoti le ho terminate.

 

Lo so che non mi ami, non rappresento per te nemmeno un’onda trascurabile, di quelle che si gettano sulla spiaggia nella noncuranza dei passanti, al mattino.

Ogni alba penso a te, sei terra e io sono acqua, ma non ho dita così lunghe da raggiungerti, mi muto e mi sformo, sono un rivolo perduto, che non riesci o non puoi trovare.

 

Eppure, io resto, in quell’angolo remoto che forse non sai di possedere.

E ti nutro a piccole gocce, silenziosa ti amo.

 

V.

 

                                                Three

 

P. adorato,

mai nemmeno un segno, un piccolo gesto arcuato, oppure una parola in più. E’ tutto sempre così misurato in te, calibrato, ponderato.

I miei tentativi continuano ad andare a vuoto, inutili scrollate d’ali e un residuo di piume da buttare via.

 

E’ l’alba di un mattino gioioso di sole, pare un’alba cantata con tutto questo rosa che affiora. Poi sarà il freddo che mi conserverà intatta nel mio calore interno, irrisolvibile.

I fiori piangono brina, vorrei regalartene uno, il più odoroso, il più sofferente.

Stanotte ho sognato di essere un cavallo libero, bianco e schiumante, in corsa verso te.

Io so che soffri anche tu, ti vedo che schiumi rabbia, ti agiti, ti passi le dita lunghe tra i capelli, cammini il meno possibile, fai l’indispensabile.

Adorato, che sollievo poterlo almeno scrivere, la notte è stata lunga e copiosa di lacrime versate, per te, per me, per i nostri desideri che non combaciano.

 

Se potessi, ti porterei in una tasca e ti farei vedere le luci ampie del giorno che si sparge a lente falcate. Oppure mi incamminerei con te verso quel lago verde che sembra un’apparizione, un miraggio, tra le colline più a nord. Guarderemmo dei pesci che saltano dentro questo lago apparecchiato per noi e cercheremmo una musica adeguata per celebrarlo. Tu la troveresti.

 

Io ti amo, non riesco a ingoiare queste parole senza che rispuntino fuori come un ospite indesiderato alla porta. Io ti amo e so che tu non mi ami, non c’è da aspettarsi che mi tornino indietro, queste parole, in una busta bianca senza affrancatura.

Lo so, e mi dispiace non avere un ventaglio da regalarti, un ventaglio di molti colori che possa sparigliare i tuoi movimenti, le tue mosse segrete.

So che dentro hai un nucleo che brucia, so che l’amore non è contemplato perché è troppo potente e non ne puoi parlare a caso, come fosse un sughero qualunque che galleggia sulla superficie dell’acqua.

L’amore è uno stregone potente e non tollera scherzi, e nemmeno allegretti, o andanti con brio.

 

L’amore è la casa dove non abiti e dove non sto nemmeno io.

 

Siamo ombre, esuli o migranti, siamo una facciata da imbiancare che necessita di vernice brillante e trasparente.

Io sono qui, poco lontana da te, e vorrei stringerti le mani, invitarti almeno per un caffè, resuscitare una primavera oltre le vetrate e sentire, nel profondo, che questo nostro vago assomigliarci è soltanto l’inizio di un bel viottolo di campagna, quello che resiste all’inverno, che recita i nostri passi, che ci attende come un cameriere fedele, o un amico abbandonato da troppo tempo.

 

Vuoi venire con me?

Dimmidisì, per favore.

 

Ti amo, adorato, questo è il mio segreto.

 

V.

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